Agli inizi degli anni 90 avvennero due cose, una conseguente all’altra: I Nirvana sulla scena musicale, cominciammo tutti a suonare la chitarra. Passato il dolore lancinante ai polpastrelli della mano sinistra sembrava tutto molto facile, avevamo 14 anni, imparavamo in fretta e avevamo del buontempo a disposizione.

Ben presto cominciammo a snobbare, per non dire maltrattare il povero Cobain. Il nostro mentore, colui che ci aveva iniziati trattato come una scarpa vecchia. Troppo poco tecnico. In così poco tempo, noi suonavamo già meglio. I più coraggiosi osarono addirittura vendere i Compact disc. Cominciammo ad essere catturati da quelli che venivano definiti “guitar hero”, ipertecnici, velocissimi. Spesso non capivi se quello che usciva dallo stereo era il suono prodotto da una chitarra o da un bastoncino tra i raggi di una bicicletta. Noi volevamo essere veloci. I più veloci.

Ma all’improvviso la verità ci venne sbattuta in faccia in maniera molto poco delicata. Eric Clapton fece un’esibizione acustica sul principale canale musicale dell’epoca. Per noi adolescenti con un livello di testosterone da guinness dei primati un’occasione da non perdere per far colpo. Bisognava imparare quella manciata di canzoni. Ricordo ancora il pensiero comune: “capirai che ci vuole, lo chiamano slow hand, quattro note e via”. Ebbene sì, il soprannome di Eric Clapton era ed è “mano lenta”. E noi invece eravamo molto veloci.

Sbattemmo il muso al muro in maniera devastante, ne portiamo sicuramente ancora i segni addosso. Non capivamo, le note erano in effetti poche, le suonavamo, sembrava andasse tutto bene ma poi, ascoltando la versione originale nessuno di noi è mai riuscito ad avvicinarsi a un risultato decente.

Andammo tutti quanti a guardarci il video di quell’esibizione per scoprire che guardare Clapton suonare era altrettanto elettrizzante che sentirlo. Guardate tutti l’unplugged di Eric Clapton. Batte il piede, canta, sorride al pianista, scuote la testa, non guarda mai la chitarra. E poi quell’espressività, quel tocco sulle corde. Ecco cosa non riuscivamo a riprodurre: il tocco. Ho avuto la stessa sensazione quando per la prima volta ho visto dipingere Lorenzo Filardi. Lorenzo disegna, poi cancella tutto con colori forti, poi disegna nuovamente sopra. Poche linee, ma fortissime. Fa tutto con una sicurezza estrema, difficile capire se abbia già tutto in testa o se improvvisi. Predilige lavorare su grandi dimensioni per riprodurre i suoi soggetti: spazi urbani, chiese, utensili, situazioni sportive, fatti di cronaca. Si muove con calma, e crea la sua opera d’arte. Lorenzo ha il suo tocco, proprio come Clapton, inimitabile.

 

Segno su segno è la prima mostra personale di Lorenzo Filardi. Allestita presso la gallaria GLIACROBATI di via Ornato 4 a Torino. Inaugurata il 14 giugno la mostra sarà visitabile fino al 26 luglio 2019.

Non c’è niente altro di rilevante da dire su Lorenzo che non riguardi quel tocco.

Prima lo impariamo e meglio è. La velocità, la prestazione, il numero di cose che una persona riesce o non riesce a fare sono poca cosa, se paragonati a quel tocco. Troviamo il nostro, sicuramente ne abbiamo uno, coltiviamolo, curiamolo, dandoci tempo. E soprattutto: diamo tempo agli altri di coltivare e trovare il loro.

Alcuni di noi, riacquistarono i cd dei Nirvana e intimamente chiesero scusa a Kurt Cobain, qualcuno riuscì anche a trovare il proprio tocco. Gli altri, i più, appesero la chitarra al chiodo…

Giorgio Codias