Il cosiddetto lockdown non mi è pesato per niente.

Anche se a una festa divento, molto facilmente, il capo animatore turistico di turno non sono uno dai mille amici ed eventi mondani. Poi francamente, ringrazio che finalmente si siano decisi a legiferare riguardo quelli che hanno il vizio di parlarti a 5 cm dal naso e che durante un discorso si sentono in dovere di toccarti a ogni chiusura di un periodo. Era ora!

Mio figlio ha anche fatto amicizia con le persone con disabilità che quotidianamente contatto in videochiamata. Con una fa i compiti di matematica, con un’altra chiacchiera ma il suo preferito è Jamal: un ragazzone nero, autistico, non verbale. In videochiamata si sorridono tantissimo. Da quando ha conosciuto Jamal mi ha tempestato di domande come solo un bambino di 6 anni sa fare. Per seguire la terribile moda delle metafore di guerra: un bombardamento a tappeto. Ed io che da povero illuso pensavo di avere esaurito l’argomento con un semplicistico: ”Lui è così, non parla ma è molto intelligente e sa fare un sacco di cose”, chiuso in casa non potevo neanche scappare dal bambino assetato di informazioni. Tutto nella norma direi, nessuna tragedia da lockdown.

Solo che abbiamo vissuto in 4 per un lungo periodo: Io, la mia compagna, mio figlio e la mia…rabbia.

La mia rabbia ha preso forma e ha vissuto con noi, nutrita da quello che ogni giorno ero costretto a vivere e alimentata da quello che tutt’ora sento: mail di medici che scompaiono (nel 2020), stragi nelle RSA, case di ospitalità notturna costrette a gestire quarantene, chi dovrebbe prendersi delle responsabilità che scompare con la stessa faccia tosta con cui qualcuno si affaccia al balcone per additare l’untore, morti che non tornano (ovviamente), tamponi non fatti, bambini a casa e genitori a lavoro e qui si configura anche il reato di abbandono di minore. L’elenco sarebbe infinito e terribile. Abbiamo festeggiato il 25 aprile lasciando morire con indifferenza chi ci ha donato su un piatto d’argento la libertà e chi, qualche decennio più tardi, ci ha regalato anche il benessere.

E poi il grido comune: “ripartiamo!”. Preso da un impeto di entusiasmo e delirio utopistico pensavo volessero “ripartire” le ricchezze.

Sono troppo vecchio per rimettermi a tirare pietre ma troppo giovane e cocciuto per rassegnarmi. Non posso accettare di essere spettatore passivo di questa tragedia che mi si sta consumando davanti agli occhi ma non riuscivo a mettere in piedi un piano d’azione che avesse un senso.

Qualche giorno fa mio figlio era davanti al computer che seguiva un video di scienze girato dalla sua maestra. Quando arrivano questi video ci mettiamo tutti davanti al PC: regia, idee, cambi di camera e una passione che, questa sì, sarebbe bello riuscire a “ripartire”. In questo strano periodo le maestre di mio figlio mi hanno stupito in una maniera che non avrei mai pensato possibile. A un certo punto la maestra: ”…imparare a pensare è la cosa più importante, più importante di leggere e scrivere, ci sono persone che senza sapere leggere e scrivere hanno pensato grandi cose”. Mentre io stavo per partire in un applauso spontaneo di fronte a cotanto messaggio mio figlio si gira e: ”come Jamal papà!”.

Messaggio arrivato forte e chiaro maestra!

Interrompo il mio applauso per asciugarmi gli occhi mentre la rabbia esce dalla porta senza dire una parola levandosi definitivamente dai c*******. Ho finalmente chiaro il piano d’azione: provare a rendere te, caro Tommaso, una persona migliore di me. Contribuire a rendere la tua generazione migliore della mia.

E sinceramente ci vuole molto, molto, poco.

Giorgio Codias

“Sguardi oltre lo schermo” è una raccolta di punti di vista di operatori e operatrici di Stranaidea sul lavoro sociale ai tempi del Covid-19. Perchè andrà tutto bene, se andrà bene per tutti